In questi giorni di festa mi sono imbattuto in una di quelle storie che “sanno” di Natale, con il loro bagaglio di speranza per il futuro dell’umanità e del pianeta, in cui umani e animali sono in grado di capirsi: un pezzo del National Geographic sulla comunicazione, più specificamente sulla traduzione del linguaggio delle balene capodoglio.

Un team di brillanti scienziati si è infatti messo a lavorare sul come tradurre i segnali (code) emessi dai capodogli, partendo dalla loro osservazione in natura, e quindi applicando alla ricerca i recenti progressi in intelligenza artificiale e reti neurali.

Questo nostro contributo intende essere un estratto parziale in italiano per invitarvi a leggere l’intero articolo cliccando qui: ne vale davvero la pena per capire quanto ognuno di noi possa fare, ognuno con le sue specializzazioni (qui ci sono anche fior di linguisti), per contribuire a rendere questo mondo migliore.

In una frizzante mattina di primavera del 2008, Shane Gero sentì per caso una coppia di balene che chiacchieravano. Gero, un biologo canadese, era alla ricerca di capodogli al largo della Dominica quando due maschi, piccoli della stessa famiglia, spuntarono nei pressi della sua barca. Gli animali, che chiamò Drop e Doublebend, si strofinarono reciprocamente i musi contro le loro enormi teste squadrate e iniziarono a comunicare.

I capodogli “parlano” a scatti, che emettono in serie ritmiche chiamate in inglese “code”. Per tre anni Gero aveva usato dispositivi subacquei per registrare i code di centinaia di balene. Ma non aveva mai sentito niente di simile. Le due balene questa volta ticchettarono per quaranta minuti quasi consecutivamente, talvolta stando immobili, talaltra facendo roteare e intrecciando i loro corpi argentei come corde di funi, con brevissime pause nella loro chiacchierata. Gero a questo punto moriva dalla voglia di capire che cosa si stessero dicendo, mentre aveva l’impressione di origliare da dietro una porta due fratelli che giocavano nella loro stanza. “Parlavano, giocavano come due fratelli umani”, dice. “Era chiaro che stavano succedendo molte cose.”

Nei successivi tredici anni Gero, ricercatore del National Geographic, avrebbe avvicinato e registrato centinaia di capodogli. Ma continuava a tornare su una rivelazione che lo aveva colpito mentre ascoltava Drop e Doublebend: se gli umani riuscissero mai a decodificare il linguaggio delle balene, o a determinare se le balene possiedono qualcosa di definibile come linguaggio, i loro clic andrebbero contestualizzati. La chiave per sbloccare questo studio consiste nell’identificare i singoli individui, e capire che cosa stanno facendo mentre emettono i loro suoni.

Uno dei sogni più antichi dell’umanità consiste nell’arrivare a conversare con altre specie. Negli anni successivi all’intuizione di Gero, e in parte grazie ad essa, la possibilità di colmare l’attuale divario comunicativo è diventata più realistica. Nell’aprile di quest’anno, un team di scienziati ha annunciato di aver intrapreso un impegnativo progetto quinquennale mirato ad approfondire il lavoro di Gero con una sfida all’avanguardia per cercare di decifrare ciò che i capodogli si dicono fra di loro.

Un’impresa del genere sarebbe sembrata una follia, anche solo pochi anni fa: ma non si baserà esclusivamente sul lavoro e sulle intuizioni di Gero. Il team di scienziati all’opera comprende esperti in linguistica, robotica, apprendimento automatico e ingegneria, che sfrutteranno gli attuali e continui progressi dell’intelligenza artificiale, ora (parzialmente, NdT) in grado di tradurre una lingua umana in un’altra senza l’aiuto di una Stele di Rosetta, o chiave. La ricerca, soprannominata Protect CETI (Cetacean Translation Initiative), è probabilmente la più grande impresa nell’interpretazione interspecie della storia.

Questi scienziati sono già al lavoro per costruire appositi dispositivi di registrazione audio/video, mirando a registrare e analizzare milioni di code di balene, con la speranza di riuscire a tracciare l’architettura alla base del chiacchiericcio delle balene, quindi di identificarne le unità minime. Possiedono una grammatica, una sintassi, o qualcosa di analogo a parole e frasi? Questi esperti monitoreranno il comportamento delle balene quando emettono o ricevono (sentono) i clic, e sfruttando le conoscenze sviluppate negli ultimi decenni sull’elaborazione del linguaggio naturale, i ricercatori cercheranno di interpretare queste informazioni.

Niente di simile è mai stato tentato. Abbiamo addestrato i cani a rispondere ai nostri comandi e i delfini hanno imparato a imitare i fischi umani. Abbiamo insegnato a scimpanzé e gorilla a usare il linguaggio dei segni e ai bonobo per rispondere alle domande toccando i simboli su una tastiera. Un elefante a Seoul, di nome Koshik, può persino pronunciare qualche parola in coreano! Tuttavia, l’obiettivo primario non è tradurre per far capire gli umani alle balene. È capire cosa si dicono i capodogli mentre vivono la loro vita in natura.

Il progetto è stato avviato da un biologo marino, con un semplice assunto: il progresso sovente arriva quando i maggiori esperti di diverse discipline in rapido progresso collaborano fra di loro. David Gruber è anche un National Geographic Explorer, ma i suoi interessi hanno da tempo oltrepassato i confini tradizionali. Professore in biologia e scienze ambientali della City University di New York, Gruber ha utilizzato i sottomarini per esaminare le barriere coralline. Ma ha anche scoperto una tartaruga marina biofluorescente nelle Isole Salomone, ha scoperto che banchi di pesci torcia usano la loro luce risplendente per coordinare i movimenti, ha studiato le molecole che fanno brillare i gattucci e alcune anguille, e ha costruito una fotocamera per simulare la vista degli squali. Ha anche collaborato con un esperto in robotica per sviluppare un delicato dispositivo a sei tentacoli che consente ai ricercatori di raccogliere le meduse senza danneggiarle.

Nel 2017 Gruber, assistente al Radcliffe Institute dell’Università di Harvard, oltre che subacqueo, rimase affascinato dai capodogli, i più grandi odontoceti, dopo aver letto un libro sugli apneisti che li studiano. Un giorno, mentre ascoltava i code delle balene, gli si avvicinò Shafi Goldwasser, un collega presso lo stesso istituto, e gli disse “Sono davvero interessanti, suonano come un codice Morse”. Goldwasser aveva tenuto lezioni per un gruppo di colleghi alla Radcliffe sull’apprendimento automatico, una branca dell’intelligenza artificiale che utilizza algoritmi per trovare e prevedere modelli – oggi l’apprendimento automatico guida tutto, dai motori di ricerca, ai robot aspirapolvere domestici, ai veicoli a guida autonoma – così invitò Gruber a condividere i clic con il suo gruppo alla Radcliffe.

Quel gruppo includeva alcune acute menti informatiche: Goldwasser è uno dei massimi esperti mondiali di crittografia, e Michael Bronstein, esperto in machine learning presso l’Imperial College di Londra, ha creato una società di machine learning che ha poi venduto a Twitter per rilevare notizie false. Il gruppo è stato incuriosito dalla presentazione di Gruber. L’apprendimento automatico potrebbe aiutare gli esseri umani a comprendere la comunicazione animale?

I linguisti sostengono che nessun animale non umano possiede sistemi di comunicazione tali da poter essere chiamati “linguaggio”. Ma le balene potrebbero rappresentare un’eccezione? Il linguaggio umano si è evoluto almeno in parte per mediare le relazioni sociali, e Gero ha dimostrato che i capodogli conducono una vita sociale complessa.

Tra qualche anno, se i vocalizzi dei capodogli diventeranno più comprensibili, il team potrebbe tentare di comunicare con le balene, non tanto per tenere un dialogo interspecie, quanto per osservare se le balene rispondono in modo prevedibile, con il primo obiettivo di validare le analisi del team circa la comunicazione dei capodogli.

Estratto liberamente tradotto da Federico Perotto, l’articolo completo di Craig Welch (National Geographic, 21 aprile 2021) è qui.

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