Lingue in trincea: il mercato della traduzione brevettuale in Europa

Federico Perotto
Education et Sociétés Plurilingues n° 26 – juin 2009 (pp. 83-90)

Lingue in trincea: il mercato della traduzione brevettuale in Europa - Federico Perotto

Lingue in trincea: il mercato della traduzione brevettuale in Europa

L’Union Européenne demeurera-t-elle multilingue? Deviendra-t-elle une zone de multilinguisme restreint? Ou bien y aura-t-il convergence vers un monolinguisme uniquement fondé sur l’anglais? De plus en plus, le « droit de traduire vers sa langue maternelle » se trouve entravé à cause du coût de la traduction, des délais et du manque de suivi pour cause de l’application forcé d’un multilinguisme integral rigide. Le Protocol de Londres à la Convention des Brevets Européens est symptomatique de cette évolution. Les débats dans les divers parlements qui ont suivi la ratification du Protocol de Londres ont révélé au grand public le cas de la traduction des brevets, un exemple parlant du contraste entre le multilinguisme integral ou limité et un monolinguisme basé sur l’an­glais.

Will the European Union remain a multilinguistic area? Will it develop a limited multilingualism? Or will it converge towards monolingualism, based solely on English? More and more, the “right to translate into one’s mother-tongue” is falling victim to a total or partial downturn because of translations costs, deadlines, and the lack of consistency due to the forced application of a rigidly integral multilingualism. The London Protocol at the European Patent Convention is symptomatic of this evolution. The debates in various Parliaments following the ratification of London Protocol exposed the case of patents translation to the generai public, a revealing example of the contrast between integral or limited multilingualism and an English-based monolingualism.

L’invenzione costituisce il tema della documentazione brevettuale, cioè dei documenti che devono essere depositati presso l’ufficio competente per ottenere la concessione, presentati sotto forma di domanda di brevetto. Questa è suddivi­sa in due sezioni, di cui la prima è destinata all’individuazione dell’invenzione (c.d. “descrizione”, costituente circa il 70-90% del documento) e la seconda alla precisazione dei connotati inventivi per i quali si richiede protezione giuridica (c.d. “rivendicazioni”, costituenti circa il 10-30% del documento). Ne segue che le rivendicazioni, in connessione con la descrizione, identificano l’invenzione oggetto della tutela e delimitano l’ambito di prote­zione del brevetto, rendendo palese ai terzi quali attività ricadono nell’ambito della tutela brevettale e sono pertanto illecite.

Una domanda di brevetto deve, per poter essere depositata in sede europea (e assumere così status di “brevetto europeo”), disporre di una versione della descrizione in una lingua a scelta fra inglese, francese e tedesco; le rivendicazioni vanno però pubblicate in tutte e tre queste lingue. Dopodiché, per ottenere copertura nei singoli stati, fino a maggio 2008 erano necessarie le versioni tradotte nelle singole lingue nazionali.

L’impatto della traduzione brevettuale

I costi della traduzione delle richieste di brevetti sono molto alti; è assai più costoso brevettare un’invenzione in Europa rispetto agli Stati Uniti o al Giappone. La traduzione qui costituirebbe, secon­do alcuni, un ostacolo alla ricerca, allo sviluppo e all’innovazione. Recentemente è anche stato dimostrato che le traduzioni sono consultate di rado: presso l’Institut National de la Propriété Industrielle francese, ad esempio, le traduzioni sarebbero prese in considerazione soltanto nel 2% dei casi.

A questo proposito, nel “Libro verde sul brevetto comunitario e sul sistema dei brevetti in Europa – promuovere l’innovazione tra­mite il brevetto”, presentato dalla Commissione nel 1997, sono state sintetizzate le soluzioni proposte. Una prima soluzione possibile è quella prospettata nella versione originale della Convenzione di Lussemburgo del 1975: limitare la traduzione soltanto alle rivendicazioni del brevetto (art. 33), da depositare all’atto del rilascio del brevetto o poco più tardi, lasciando a ogni Stato contraente la possibilità di chiedere una traduzione del fascicolo del brevetto.

Una seconda soluzione era stata discussa nell’ambito della Conferenza di revisione della Convenzione di Lussemburgo nel 1989 e aveva riscosso un consenso piuttosto ampio: permaneva la condizione della traduzione del fascicolo completo, ma, nel caso in cui non fosse stata depositata la traduzione in una o più lingue, l’unica conseguenza sarebbe stata che il brevetto non avrebbe prodotto i suoi effetti nello Stato membro o negli Stati membri interessati e non la decadenza del brevetto comunitario. Questa soluzione costituiva una deroga al carattere unitario del brevetto comunitario ravvicinandolo, sotto questo profilo, al regime del brevetto europeo.

Una terza soluzione possibile in materia di riduzione dei costi di traduzione è la soluzione “globale” elaborata dall’ufficio europeo dei brevetti. Questa soluzione contiene tre elementi fondamentali:

  • la pubblicazione, contestualmente a quella della domanda o il più presto possibile dopo questa, di una sintesi “accurata nella lingua procedurale e, successivamente, la traduzione di questa sintesi in tutte le lingue degli Stati membri;
  • la traduzione delle sole rivendicazioni, all’atto del rilascio del brevetto;
  • la traduzione di tutto il fascicolo del brevetto prima di qualsiasi azione intentata dal titolare per far valere i diritti derivanti dal brevetto.

Il Brevetto Comunitario

Il 3 marzo 2003 è stato raggiunto un accordo sul Brevetto Comunitario mirato a ridurre i costi di traduzione dei brevetti in Europa del 50%. Tale accordo si basa su una proposta di compromesso che tiene in considerazione alcuni elementi del dibattito in corso negli ultimi anni circa il costo elevato del brevetto in Europa, la copertura del brevetto nei Paesi Europei, e la certezza del diritto per controversie riguardanti i brevetti.

Il Brevetto Comunitario darebbe agli inventori la possibilità di ottenere, con una sola richiesta, un singolo brevetto legalmente valido in tutta l’UE a un costo decisamente inferiore rispetto a quello attuale. La riduzione dei costi sarebbe raggiunta principal­mente attraverso la riduzione delle lingue ammesse e delle tradu­zioni. Il regime linguistico del Brevetto Comunitario previsto vede il dominio delle lingue ufficiali dell’EPO (European Patent Office), cioè inglese, francese e tedesco. Le domande, quindi, per essere ammesse, dovranno essere redatte in una di queste lingue.

Con la creazione del brevetto comunitario, a differenza del bre­vetto europeo, si intende dare agli inventori la possibilità di otte­nere un brevetto unico giuridicamente e automaticamente valido in tutta l’Unione Europea. I vantaggi derivanti da questo sistema sono i seguenti:

  • una gestione dei diritti molto più facile, priva del passaggio attraverso una fase nazionale, con conseguenti ulteriori riduzio­ni di spese;
  • il sistema consentirebbe di evitare il moltiplicarsi delle azioni in materia di contraffazione in ogni Stato membro, poiché l’attore potrebbe concentrare le sue azioni nel luogo in cui è domicilia­to il convenuto;
  • con l’istituzione di un organo giurisdizionale centrale, competente a pronunciarsi sull’interpretazione e sulla validità del brevetto comunitario, si garantirebbe una maggiore certezza giuridica;
  • una riduzione sostanziale dei costi di brevetto, in particolare di quelli legati alla traduzione e al deposito.

Nel marzo 2003 è stato deciso che il brevetto comunitario potrà essere presentato nella lingua nazionale e dovrà essere tradotto in una sola delle lingue ufficiali dell’ufficio Europeo dei Brevetti. Le rivendicazioni, invece, dovranno essere necessariamente tradotte nelle varie lingue nazionali al fine di convalidarne la tutela giuri­dica.

Il Consiglio ha stabilito inoltre che, a partire dal 2010 le contro­versie relative ai brevetti comunitari saranno esaminate in primo grado dinanzi ad una camera giurisdizionale unica istituita con decisione del Consiglio e denominata “Tribunale del brevetto comunitario”. Tale camera sarà associata al Tribunale di Primo Grado (TPG) delle Comunità europee. Sino ad allora i tribunali nazionali continueranno a essere competenti per le controversie sui futuri brevetti comunitari.

L’idea di un brevetto comunitario risale agli albori del sistema brevettuale europeo; ma le conseguenze sono oggetto di controversia, come dimostra la questione della traduzione dei brevetti. Ridurre il numero di lingue in cui occorre tradurre i brevetti, in modo da ridurre i costi, è in contrasto con il diritto di accesso a informazioni brevettuali presentate in una lingua familiare. Nella proposta (2001) della Commissione Europea, Direzione Generale del Mercato Interno, si raccomanda di eseguire meno traduzioni, ma ciò ridurrebbe l’entità del risarcimento che può essere recla­mato a chi plagia un brevetto che non sia stato tradotto in una lingua nota a quest’ultimo.

La conferenza governativa degli Stati contraenti dell’Organizzazione Europea dei Brevetti sulla riforma del sistema europeo dei brevetti (Parigi 24-25 giugno 1999) ha nominato non solo un gruppo di lavoro “Regolamento delle controversie”, ma anche un gruppo di lavoro “Riduzione dei costi” con il compito di sottoporre al governo degli stati contraenti un rapporto dimo­strante la possibilità di abbassare di circa il 50% i costi risultanti dalle traduzioni dei brevetti europei nelle relative lingue naziona­li.

Questo gruppo di lavoro ha elaborato una proposta d’accordo sull’applicazione dell’articolo 65 della CBE (Convenzione sul Brevetto Europeo). Ai termini di quest’accordo, tutti gli stati aven­ti come lingua ufficiale una delle tre lingue ufficiali dell’EPO rinunciano al loro diritto di esigere, secondo l’articolo 65 della CBE, una traduzione dei brevetti europei nella loro lingua. L’esigenza formulata all’articolo 14 della CBE, secondo la quale le rivendicazioni devono essere tradotte nelle tre lingue ufficiali dell’EPO, è mantenuta. D’altra parte, se uno Stato contraente non ha nessuna lingua ufficiale in comune con l’EPO, esso con­serva il diritto di esigere una traduzione delle rivendicazioni in una delle sue lingue ufficiali. Rinuncia però ad esigere una tradu­zione integrale dell’intero fascicolo (riassunto e descrizione) del brevetto europeo in una delle sue lingue ufficiali, se quest’ultimo è stato rilasciato in una delle lingue dell’EPO che avrà precedentemente designata, oppure se è stato tradotto in questa lingua. Ogni Stato conserva inoltre il diritto di esigere che, in caso di controver­sia, il titolare fornisca a proprie spese una traduzione completa del brevetto europeo.

Il protocollo di Londra: prospettive attuali e future

Queste regole sono state formalizzate in un documento denomi­nato “Protocollo di Londra” (London Agreement, ottobre 2000) entrato in vigore il 1° maggio 2008 presso i tredici paesi che l’hanno ratificato, tra cui i tre Stati nei quali è stato registrato il maggior numero di brevetti europei nel corso del 1999 (Germania, Francia, Regno Unito). Questo protocollo non solo porterà a una massiccia riduzione dei costi di traduzione, ma implicherà anche che i brevetti europei rilasciati in lingua inglese avranno effetto pure in Svizzera benché non tradotti in nessuna delle sue lingue ufficiali. Data la sua tipicità plurilingue, questa nazione può costituire un punto di riferimento, o quantomeno un’area di sperimentazione interessante per l’Unione Europea.

Il Parlamento italiano non ha ratificato il Protocollo di Londra, ma le pressioni per una sua implementazione sono notevoli. Leggiamo da documentazione Confindustria (Roma, 1 febbraio 2007): “Per quanto riguarda il regime linguistico, Confindustria sostiene da tempo la necessità di limitare il numero delle lingue ufficiali per abbattere i costi di brevettazione e, come obiettivo finale, di adottare la lingua inglese quale unica lingua, con gli evi­denti benefici che ne conseguirebbero quanto ai costi, alla certez­za, alla validità e alla rapidità dei processi decisionali. In questa ottica, considerata l’esigenza di adottare in tempi ragionevoli un sistema di tutela giurisdizionale quanto più possibile unitario, l’in­dustria italiana aderirebbe alla proposta, contenuta nel Protocollo di Londra, di un regime basato sulle tre lingue ufficiali EPO (domanda di brevetto in una delle tre lingue EPO e traduzione delle rivendicazioni nelle altre due lingue). Tali considerazioni ci spingono, in questa fase, a sostenere una rapida approvazione dell’EPLA (European Patent Litigation Agreement) e del Protocollo di Londra sul regime linguistico, costituendo essi il primo passo con­creto nella direzione dell’istituzione di un brevetto comunitario”.

Tuttavia, anche se le pressioni per una riduzione dei costi sulle traduzioni sono molto forti e la prevalenza della lingua inglese nei settori scientifici e tecnologici è un dato oggettivo, attualmente per poter depositare una domanda di brevetto in Italia è ancora necessaria una sua versione integrale in lingua italiana. Il Protocollo di Londra è opzionale: gli Stati europei saranno liberi di applicarlo oppure no.

Seguono due testimonianze dirette, la prima tratta da documentazione EPO, a favore del Protocollo di Londra; e la seconda tratta da www.lapetition.be nell’ambito della raccolta di firme prece­dente alla ratificazione del protocollo da parte della Francia, Paese grazie alla cui firma questo protocollo ha potuto entrare in vigore.

The London Agreement: le ragioni del protocollo di Londra

It’s a long road for inventors until they finally receive a patent for their work. And an expensive one: development, research and documentation of a new technology demand strategic investments along the way. But once a patent has been granted, inventors face yet another obstacle before they can fully pursue the commercial prospects of their creation internationally: the translation of the text of the European patent (called the specification) into the national language of every country in which they seek to register it.

For years, the practice has worked as follows: once the EPO grants a European patent, national legislation treats the patent as several national patents granted in different countries. In other words, a European patent can be seen as a bundle of patents. And for a patent to be valid in a particular country, the whole patent specification needs to be translated into the language used in that country. This creates additional costs. In fact, translation costs can add up to 40 percent of overall patent costs, with the average figure for translation at around euro 3.800. Depending on the technical field in which the patent has been granted, on the size of the patent and on the languages involved, costs can go substantially higher. As an effective method of cutting down post-grant translation costs, a number of key contracting States to the EPC adopted the London Agreement on 17 October 2000. Almost seven years to the day later, on 9 October 2007, the second chamber of the French Parliament approved the ratification bill with a striking majority.

The main aim of the London Agreement is to reduce costs by introducing a cost-attractive post-grant translation regime for all European patents.

To this end, the States party to the agreement agree to waive – entirely or largely – the requirement for translations of already granted patents in their national language. States having a nation­al language in common with one of the official languages of the EPO, such as France, Germany, the United Kingdom and Switzerland, shall dispense with translation requirements.

States having no national language in common with one of the official languages of the EPO have the right to require that a translation of the claims of the patent – which are much shorter in length – into one of its official languages be supplied. The Netherlands, Sweden and Denmark, for instance, will require that the claims of the European patent be supplied in their official lan­guage. In addition, these States will require that the description of the European patent be supplied in English.

The entry into force of the Agreement will be a true breakthrough in improving the European patent System.

Pétition contre le protocole de Londres: un parere contrario al Protocollo di Londra

Le protocole de Londres est un traité qui vise à supprimer la traduction des brevets d’invention. Il a été signé, en 2001, par une majorité de pays de l’Europe du Nord, mais la plupart des pays latins (Espagne, Portugal, Italie, Grèce) et l’Autriche, entre autres, ont refusé de le signer.

A l’origine, quelques multinationales françaises, appuyées par la direction du MEDEF (et non la totalité du MEDEF), ont exercé une pression sur les divers gouvernements successifs, relayant une exigence formulée, il y a une dizaine d’années, par l’Office améri- cain des brevets qui avait déclaré “Il faut que le monde entier comprenne que l’anglais est LA langue en matière de propriété industrielle”. […] Le but annoncé était de réduire les coûts de dépôt d’un brevet européen pour augmenter le nombre de dépôts nationaux, le but avoué étant tout simplement que ces multinationales réalisent une économie substantielle.

Des institutions (Académie française, Académie des Sciences morales et politiques, Délégation générale à la langue française etc.), des professionnels (Compagnie des conseils en propriété industrielle, Association des professionnels de la traduction des brevets d’invention, Association des informaticiens de langue française, Société française des traducteurs, etc.), des associations de défense de la langue française (Défense de la langue française, Avenir de la langue française, etc.) et de nombreux parlementaires, en juin 2001, ont exprimé des avis défavorables et ont souligné les dangers de ce traité. Cependant, à l’issue d’une “mission de concertation”, qui n’avait d’autre objectif que d’entériner une décision póse à l’avance, le gouvernement français a signé le pro­tocole de Londres, acceptant ainsi l’hégémonie de l’anglo-américain en matière de propriété industrielle.

Le protocole de Londres entérinerait définitivement la mort de la diversité culturelle et linguistique qui a fait (et qui fait encore, mais pour combien de temps ?) la richesse de l’Europe. Le langage scientifique français, qui est actuellement très en pointe dans les divers domaines techniques, disparaitrait à terme. En effet, une invention ayant, par définition, un caractère novateur, le brevet qui est destiné à la protéger contient presque toujours des mots nouveaux. Renoncer à la traduction des brevets d’invention consisterait à consacrer définitivement l’enrichissement exclusif de l’anglo-américain et à accepter l’appauvrissement des autres langues européennes. Une langue qui n’évolue plus au rythme du progrès technique et scientifique est une langue qui se meurt.

Un pays qui traite de l’usage de sa langue en termes de rentabilité est un pays qui a déjà renoncé à sa culture. En ne ratifiant pas le protocole de Londres, la France pourrait s’enorgueillir d’avoir contribué à la sauvegarde et à la promotion d’un vrai plurilinguisme européen et à la construction d’une Europe des citoyens qui pourraient avoir accès aux informations dans leur langue maternelle.