Italiano lingua in più

Introduzione e selezione a cura di Federico Perotto
Education et Sociétés Plurilingues n° 12 – juin 2002 (pp. 23-30)

Italiano lingua in più - Federico Perotto

Introduzione e selezione a cura di Federico PEROTTO

L’articolo che presento in queste righe di introduzione è il risultato delle riflessioni di vari specialisti del settore didattico a proposito dell’insegnamento della lingua italia­na come L2 agli immigrati stranieri, tema che l’Italia si trova a dover affrontare in maniera massiccia solamente da pochi anni, a differenza delle altre maggiori nazioni europee. Le opinioni qui esposte sono sezioni che ho creduto essere particolarmente esemplificative dei vari punti di vista approfonditi sulla rivista Ecole di Novembre 1999 da parte di educatori ed esperti di didattica delle lingue quali Franco Calvetti, Francine Rosenbaum, Maurizio Disoteo, Silvana Cantù, Irene De Matthaeis, Teresa Alberto e Mariella Allemano.

Franco Calvetti: Italiano lingua seconda o lingua straniera?

Calvetti affronta l’argomento da una prospettiva sociolinguistica e pragmatica nei confronti dell’“essere straniero” in Italia: “Occorre prevedere una scuola, libera-laica-democratica, dove si insegni l’italiano come lingua seconda (o magari terza, quarta) a chi a casa parla un’altra lingua. L’immissione sempre più impo­nente di cittadini del Terzo e del Quarto mondo nel tessuto poli­tico ed economico del nostro mondo prefigura la “costruzione” di società polietniche, società nelle quali debbono imparare a convi­vere etnie, culture, religioni, lingue fra loro diverse, a volte diversissime. Per tutti questi cittadini che hanno scelto l’Italia come paese d’accoglienza si tratta di imparare, il più presto pos­sibile, l’italiano come lingua funzionale alle opportunità nel campo del lavoro. In un paese come il nostro dove la lingua nazionale ha una diffusione veicolare minore che nel resto del mondo, la cosa si complica: occorre proporre un’educazione lin­guistica diversificata, occorre insegnare a tutti gli allievi – e fin dai primi anni di scolarizzazione – non una ma due lingue stra­niere il più efficacemente possibile. A questo proposito bisogna tener presente la lezione di Chomsky: l’apprendimento di ogni lingua si sviluppa tenendo conto dell’esperienza della lingua nativa e viene condizionato dal sistema, o meglio, dalla gramma­tica della lingua con cui ognuno di noi ha iniziato a comunicare. Le difficoltà incontrate da chi si trova in Italia come immigrato, nel momento in cui decide di cercare un corso di lingua italiana adeguato alle proprie esigenze, se viste in relazione all’organizzazione presente nelle altre grandi nazioni europee sono (anche) conseguenza della diversa storia italiana, fino a pochi anni fa terra di emigrazione piuttosto che di immigrazione: solo ultima­mente lo “stivale” è divenuto terra d’approdo di un’immigrazione di massa, di fronte alla quale le istituzioni, non ultima quella preposta alla formazione delle persone, si sono trovate sostanzialmente impreparate: “Mentre paesi come la Francia, l’Inghilterra, la Germania hanno da decenni esperienze di insegnamento della loro lingua nazionale a locutori immigrati, noi siamo appena agli inizi: il nostro sistema scolastico non è preparato a formare né linguistica- mente né pluriculturalmente chi proviene da paesi diversi dal nostro. […] Laddove la lingua nazionale ha minore diffusione – e quindi è poco studiata all’estero – com’è il caso dell’italiano occorre, oltre ad approntare unità didattiche per l’italiano, proporre un’edu­cazione linguistica diversificata. […] L’Unione Europea considera come diritto dello scolaro migrante quello dell’insegnamento della lingua nazionale del nuovo paese di residenza e richiede che tale insegnamento sia adattato al suo specifico bisogno linguistico di persona che, in condizione di immigrante, frequenta la scuola se in età scolare, i corsi di italiano se adulto e si trova in una situazione ano­mala perché è chiamato ad apprendere la lingua italiana né come madrelingua né come lingua straniera. […] Due considerazioni det­tate da esperienze di campo: l’insegnamento dell’italiano deve inve­stire tutti gli insegnanti, a qualsiasi disciplina essi appartengano; l’insegnamento a stranieri dell’italiano va visto come un’esperienza di educazione interculturale di cui si avvantaggiano tutti gli alunni.”

Francine Rosenbaum: difficoltà di integrazione e turbe del linguaggio

I problemi d’integrazione che minano alla base lo stabilizzarsi dei rapporti auspicati da Calvetti costituiscono la materia di stu­dio di Frantine Rosenbaum, la quale punta l’indice contro la mancanza di strutture preparate ad accogliere in un modo ade­guato bambini provenienti da culture differenti dalla nostra: “[…] la scuola e i consultori logopedici accolgono i bambini multi­culturali come se vivessimo in una società monolingue e mono­culturale. I nostri strumenti di valutazione sono monolingui, i diagnostici sono stabiliti in termini di deficit rapportati ad una norma monolingue e le risposte pedago-terapeutiche che propo­niamo mirano all’adeguamento a un codice monolingue sempre più lontano dalle realtà pluriculturali del nostro intorno.” La famiglia costituisce un microcosmo estremamente importante nella crescita linguistica del bambino, e i malesseri interni ad essa si riflettono immancabilmente all’esterno attraverso una concezione viziata di sé nel nuovo ambiente: la famiglia deve “crescere” con il bambino, sfruttando positivamente il bilingui­smo, vivendolo come una ricchezza, e non come un deficit cultu­rale. “Spesso il malessere delle singole persone e/o delle famiglie migranti si cristallizza attorno ai sintomi che toccano il linguag­gio orale e scritto. […] la stima di sé stessi, della propria famiglia e della propria cultura sono determinanti per appropriarsi dello scibile. Sollecito sempre la lingua di origine della famiglia, esplo­ro con la famiglia le rappresentazioni culturali del sintomo nel contesto d’origine, attribuisco un’uguale importanza all’appari­zione di manifestazioni di sofferenza presso altri membri della famiglia, dedico un’attenzione particolare all’osservazione del linguaggio del corpo, offro alla famiglia la possibilità di parteci­pare alle valutazioni e alle sedute di terapia, esploro con i genito­ri le competenze dei bambini nella lingua e nella cultura d’origi­ne, e do loro un’informazione specializzata sul multilinguismo affettivo, cioè che una persona che vive in due contesti culturali diversi, per esempio la casa e la scuola, non dice le stesse cose nelle due lingue rispettive. Il fatto di mescolare le referenze cultu­rali e le lingue non costituisce nessun rischio psichico: i problemi associati in apparenza (dal nostro modello culturale) al bilingui­smo non sono mai provocati dal bilinguismo stesso. È la situazio­ne all’origine del bilinguismo che può suscitare difficoltà nel seno della famiglia o tra la famiglia e la società di accoglienza.”

Maurizio Disoteo: Identità multilingue

Disoteo focalizza l’analisi sugli ostacoli che il migrante trova nell’apprendimento della L2, precisandone le differenze nei confron­ti dell’apprendimento di una lingua straniera: “Ciò che distingue l’apprendimento della L2 da quello di una lingua straniera è pro­prio il diverso contesto: per L2 si intende una lingua impiegata a scuola per lo studio di tutte le materie, nei momenti di gioco e nella comunicazione tra pari come nei momenti comunicativi extrafamiliari. La lingua straniera, al contrario, limita la sua presenza nella vita dei bambini alle ore scolastiche in cui peral­tro assume le caratteristiche di una “materia” tra le altre. Questa differenza comporta evidentemente grandi diversità di tipo sociale, relazionale, didattico. […] Una rapida e felice inte­grazione scolastica di bambini e ragazzi stranieri passa in gran parte attraverso il superamento degli ostacoli linguistici che essi incontrano. Ma non bisogna confondere l’apprendimento della L2 con l’apprendimento di una lingua straniera. E non si può dimenticare che la presenza di alunni stranieri reclama il riorientamento in senso interculturale di tutta l’attività scolastica.” La soluzione, o meglio la base di partenza per superare questi ostacoli più agevolmente, consiste in un approccio flessibile ed aperto alla questione, al di là di dogmi didattici e chiusure educative che forzi­no l’apprendimento ad un solo canale comunicativo, laddove se ne possono trovare molteplici per costruire un ponte sul quale lo stu­dente possa agevolmente passare per arrivare a padroneggiare un’altra lingua: “La prima osservazione riguarda l’eccessiva ansia che coglie gli insegnanti al momento dell’arrivo in classe di un bambino che non parla italiano. Crediamo che in molti casi questa situazione di disagio nasca dalla sottovalutazione delle possibilità di comunicazione non verbale che possono essere realizzate nella scuola. La comunicazione verbale è evidentemente importante tuttavia è ancora vista da troppi insegnanti come l’unica forma possibile di insegnamento: l’uso di schemi, diagrammi, tabelle, immagini e disegni può costituire un utile sostegno, spesso sottovalutato, alla comunicazione verbale. Inoltre diverse materie sco­lastiche consentono una valida partecipazione anche ai bambini con difficoltà linguistiche, ad esempio le educazioni artistica, musicale e fisica, ma anche attività interdisciplinari, come il tea­tro o la danza. Queste materie, tra l’altro, quando impiegano il lin­guaggio verbale lo propongono all’interno di una comunicazione contestualizzata, in relazione a situazioni di operatività specifiche. È dimostrato che l’apprendimento della L2 è molto più rapido nella comunicazione contestualizzata (ci riferiamo anche ai momenti di gioco, alla mensa, ecc.) che non in quella accademica, a bassa contestualizzazione. Di conseguenza le “educazioni” posso­no dare un valido contributo all’integrazione dei bambini con pro­blemi linguistici favorendone l’inserimento rapido e gratificante nell’attività scolastica e rinforzando, per quanto riguarda l’appren­dimento della L2 la motivazione e la sicurezza di sé. […1 La que­stione dell’apprendimento della L2 non va quindi circoscritta ad alcune ore dedicate specificamente a questo problema, condotte magari da un insegnante specialista, ma deve essere concepito in modo più ampio, valorizzando tutte le risorse possibili, anche quel­le che spesso vengono sottovalutate.”

La lingua materna

Infine una riflessione sulla questione del mantenimento e dello sviluppo delle competenze nella lingua materna: “È noto che la Comunità Europea prescrive che i bambini migranti possano fruire nella scuola d’accoglienza dell’insegnamento della loro lin­gua materna. Una disposizione che in Italia non si è potuta sino­ra realizzare se non eccezionalmente a causa delle caratteristi­che assunte dalla presenza degli alunni stranieri nelle nostre scuole (i bambini sono di molte diverse nazionalità e c’è una forte frammentazione sul territorio). Questa situazione non deve tut­tavia far sottovalutare l’importanza che i bambini stranieri abbiano la possibilità di crescere serenamente bilingue. La scuo­la in mancanza di corsi specifici, deve almeno evitare di ostacola­re il mantenimento dell’uso della lingua materna, nella convin­zione, ormai dimostrata, che l’uso della lingua materna facilita l’acquisizione della seconda lingua, permette di sviluppare un’i­dentità multilingue e multiculturale, e produce vantaggi sul piano cognitivo, oltre che su quello affettivo-relazionale, consen­tendo di continuare a vivere senza difficoltà la comunicazione con la famiglia e di mantenere vivo il rapporto con la propria sto­ria personale e familiare.”

Silvana Cantù: ponti di parole

Silvana Cantù esamina la realtà intrinseca alle vicende migrato­rie, non limitabile alla sola sfera linguistica: tale riflessione è da tenere in considerazione nei suoi vari aspetti, ogni volta che si vuole insegnare una lingua seconda a chi è stato in qualche modo “sradicato” dal proprio ambiente di provenienza: “Lingua e cultura sono reciprocamente correlate in un rapporto di interdi­pendenza dialettica e sono elementi costitutivi dell’identità indi­viduale e sociale. Apprendere una lingua all’interno della vicen­da migratoria non è un’esperienza neutra, riconducibile soltanto all’acquisizione di elementi lessicali e di regole morfo-sintattiche, ma è un processo complesso e faticoso, che investe la rielabora­zione e la costruzione della propria identità. Serve un impianto educativo di tipo dialogico e narrativo che faciliti l’apprendimen­to di una L2 mediata attraverso una ricomposizione e un “fare unità” dentro di sé. […] L’allievo apprende la nuova lingua come strumento di espressione di sé e di costruzione della propria identità narrativa, un’identità abitata da una molteplicità di bio­grafie: la biografia affettiva, ludica, relazionale, conoscitiva, apprenditiva, desideriate e della “perdita”.”

Insegnare l’Italiano con il metodo autobiografico

Un sistema attraverso il quale si possono lenire le conseguenze di ciò che Silvana Cantù denomina efficacemente “perdita” è il racconto di sé, strumento che sposta il baricentro dell’attenzione sul soggetto, piuttosto che sull’oggetto, permettendo la focalizza­zione di quest’ultimo non più attraverso il filtro spesso neutro dell’insegnamento, bensì tramite se stessi, permettendo in questo modo l’abbattimento di barriere altrimenti difficilmente superabili: “L’ascolto e il racconto autobiografico promuovono la narrazione di sé e incoraggiano a riconoscersi come individui dotati di una vita importante e degna di essere raccontata. Il soggetto che si racconta è libero di scegliere che cosa raccontare e come.”

Irene De Matthaeis: parlare coi mimi

“In un contesto sociale sempre più caratterizzato dalla multietnicità, la scuola è inevitabilmente coinvolta nel processo d’inte­grazione e in un più ampio discorso di educazione intercultura­le.” La soluzione comunicativa identificata da Irene De Matthaeis per alleggerire il peso delle differenze è quella del laboratorio teatrale, proposta in seguito ad una proficua espe­rienza vissuta con ragazzi di prima media che provenivano da vari paesi senza possedere alcun elemento della lingua italiana: “La maggior parte di loro desiderava partecipare sin dall’inizio al lavoro svolto in classe dai compagni italiani. Mi sono trovata a dover spiegare la favola, una delle unità didattiche iniziali previ­ste dai programmi per la prima media, senza poter utilizzare l’e­spressione verbale. Avrei potuto ricorrere al francese e allo spa­gnolo (lingue conosciute da quasi tutti gli alunni), ma decisi di ricorrere al mimo, che mi dava la possibilità di associare una figura o un movimento ad una parola, ad un’azione, e quindi ad un verbo. Chiesi loro di fare altrettanto, per constatare il livello di comprensione individuale; accolsero con entusiasmo la mia proposta, che si rivelò divertente e didatticamente utile. […] Ogni frase veniva da me spiegata ed interpretata ad alta voce; poi i ragazzi leggevano a loro volta le battute a turno, scambian­dosi i ruoli. Tutto ciò facilitava la memorizzazione di frasi corret­tamente strutturate. Mi accorsi in seguito, con soddisfazione, che molti alunni utilizzavano queste stesse frasi in altri contesti: in classe con i compagni italiani o con gli insegnanti, e successi­vamente anche nella produzione scritta.

Autostima e intercultura

Decisi quindi, in accordo con i ragazzi, di preparare una rappresentazione, coinvolgendo alcuni dei compagni italiani. La scelta cadde, naturalmente, su di una favola: ognuno aveva un ruolo ben preciso, ma conosceva a memoria anche le battute dei com­pagni. Dopo la rappresentazione notai che ogni ragazzo aveva rafforzato il senso di sicurezza di sé e l’autostima. […] Quindi, ascolto e legittimo il materiale culturale della famiglia di origine usandolo poi come leva terapeutica capace di strutturare il bam­bino e la sua famiglia nella loro identità transculturale in modo che la rappresentazione della multiculturalità e del plurilingui­smo non sia inibitrice ma diventi l’asso nella manica del loro svi­luppo affettivo e cognitivo.”

Teresa Alberto e Mariella Allemano: lingua e cultura nei poli per stranieri a Torino

Da Teresa Alberto e Mariella Alternano abbiamo un’interessante testimonianza circa la loro esperienza più che decennale nell’in­segnamento della lingua italiana a stranieri: “La crescita di iscrizioni di cittadini stranieri adulti ai corsi “150 ore” è stata costante negli anni ‘80, ma poiché questi erano organizzati per un’utenza di madre lingua italiana con problemi di analfabeti­smo, sono risultati inadeguati per loro. Infatti, l’apprendimento degli strumenti di base linguistici e culturali necessari agli stra­nieri richiede un intervento e un percorso metodologico specifico, connotato dall’insegnamento dell’italiano come L2. Dall’anno 1988/89 sono quindi stati istituiti corsi di lingua e cultura italia­na presso la scuola elementare Parini di Torino, rivolti esclusivamente ad un’utenza straniera, in cui operano attualmente 15 docenti. Per il costante aumento degli iscritti ai corsi, nell’anno ‘91/92 è stato necessario istituire un nuovo “polo” per stranieri presso un’altra scuola di Torino (Braccini) in modo da sopperire all’esubero degli iscritti. Dal 1999 i due poli per stranieri sono diventati Centri Territoriali Permanenti per l’educazione degù adulti (CTP). La scuola Parini ha coinvolto un numero sempre maggiore di stranieri: gli iscritti sono passati dai 356 nell’anno scolastico 1988/89 ai 1932 nell’anno 1998/99. Nell’ultimo anno più di metà dei frequentanti provenivano dal Nord Africa, soprattutto dal Marocco e dall’Egitto, seguiti dai Cinesi, dagli Europei non comunitari (Albania e Romania soprattutto), dai Sudamericani (prevalenza di Peruviani) e da Centro-Africani (Nigeria e Senegal).

Polo per Stranieri

L’istituzione del “Polo per Stranieri” ha consentito ad una parte consistente di adulti presenti a Torino di soddisfare l’esigenza di apprendere in modo organico e sistematico la lingua italiana e di avvicinarsi in modo strutturato alla cultura e alla realtà sociale del paese ospite. Si è creata ima struttura flessibile, articolata per Uveiti e non per classi, per rispondere a soggetti molto diver­si per istruzione e conoscenza della lingua italiana: accanto a laureati nelle più disparate discipline si presentano persone analfabete in lingua madre, la scuola deve garantire una rispo­sta adeguata ad entrambi.

coloro che non terminano i corsi. Una delle cause che determinano l’estrema mobilità dell’utenza si può individuare nella precarietà delle condizioni tipiche della maggioranza degli allievi: lavori saltuari che li portano a cambiamenti di orario e di orari di lavoro molto pesanti ritorni temporanei o definitivi al Paese di origine, impossibilità di far fronte al non trascura­bile impegno che la scuola richiede. Altro motivo di abbandono “positivo” è l’aver trovato risposta ai bisogni linguistici contin­genti: lo studente, soddisfatte le sue esigenze comunicative, lascia la scuola e vi fa poi ritorno quando si presentano nuovi bisogni collegati a cambiamenti nel suo percorso di inserimento in Italia.”

In conclusione, una frase eccellente di Jean-Paul Sartre presenta­ta come l’ha voluta esporre a bandiera del suo intervento Silvana Mosca, con la quale crediamo di riassumere lo spirito delle osservazioni fin qui esposte, a difesa di una comunicazione e di un insegnamento all’insegna dello scambio e del continuo confronto reciproco: “Per ottenere una verità qualunque sul mio conto, bisogna che la ricavi tramite l’altro. L’altro è indispensabi­le alla mia esistenza, così come alla conoscenza che io ho di me”.

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Sul Progetto LI.TO.S. (Lingua Torino Stranieri): Le lezioni della diversità. Professionalità ed educazione linguistica in contesto mul­ticulturale a Torino. TOSI A e MOSCA S., (a cura di) Burelle edi­zioni, Provveditorato agli Studi di Torino.